File spoon-archives/aut-op-sy.archive/aut-op-sy_2004/aut-op-sy.0412, message 101


Date: Tue, 14 Dec 2004 20:09:19 -0600
From: Nate Holdren <nateholdren-AT-gmail.com>
Subject: AUT: =?ISO-8859-1?Q?Fwd:_Intervenci=F3n_de_Toni_Negri_en?=


---------- Forwarded message ----------
From: autsoc <autsoc-AT-yahoo.es>
Date: Tue, 14 Dec 2004 19:42:48 +0100 (CET)
Subject: Intervención de Toni Negri en el seminario  Subvertir el presente
To: nemoniente2000-AT-yahoo.es


 
 
Guerra, resistencia, ejercicio del comúne 
Intervención de Toni Negri en el seminario Subvertir el presente.
Democracia global y proyecto de la multitud. Venecia 20 noviembre
2004.
Antonio Negri - 
Lunedì 13 dicembre 2004 
  
  
http://www.globalproject.info/art-3047.html

autsoc http://usuarios.lycos.es/pete_baumann/autonomial.html

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Guerra, resistenza, esercizio del comune 
Intervento di Toni Negri al seminario Sovvertire il presente.
Democrazia globale e progetto della moltitudine. Venezia 20 novembre
004.
Antonio Negri - 
Lunedì 13 dicembre 2004 
 

Scusatemi, ma il desiderio va su e giù. Per esempio, dopo una
mattinata devastante di viaggi malriusciti il desiderio, devo dire, è
molto basso. Quindi io credo che anche per il movimento vadano così
le cose. Certe volte si prendono di quelle botte che il desiderio, il
desiderio si calma, si clina.
Il fatto che abbiano inventato la guerra non più come conclusione
della politica ma come base stessa della politica fa parte di questa
intenzione profonda del potere desiderante al rovescio, che è quella
appunto di dare delle botte preventive che tolgono la capacità di
resistere. Questa situazione della guerra è una situazione che è
maledettamente grave, pesante. E quando parliamo della guerra come
elemento preventivo, continuo, come involucro stesso del potere
imperiale, la cosa è maledettamente preoccupante. E’ brutta, fa
paura.
E dobbiamo dircelo perché è inutile avere delle scappate desideranti
euforiche di fronte a questi elementi che sono terribili.
In più ci troviamo di fronte a una situazione caratterizzata dal
trionfo delle forze che questa guerra la hanno voluta e che vogliono
mantenerla.Leggere i giornali di questi giorni è una specie di
orribile catalogo geopolitico di operazioni di guerra che queste hanno
intenzioni di fare e di continuare.
Naturalmente si tratta di mettere a posto il Medio Oriente,
cominciando dall’Iraq e continuando con la Palestina. Si tratta
quindi di stabilire questo bel nuovo ordine, laggiù, in quel quadro.
E questa, tenete sempre presente, non è un’operazione che avvenga
semplicemente per affermare interessi americani specifici: interviene
come strumento di controllo dell’alleanza atlantica.
Il Medio Oriente è il luogo dal quale l’energia arriva in Europa ed
è quindi sul controllo del Medio Oriente che si stabilisce o meno la
possibilità dell’Europa di sviluppare una politica più o meno
libera.
Queste relazioni vanno sempre tenute presenti dietro i problemi della guerra.
La guerra è sempre fatta per ottenere dei risultati e questa
situazione geopolitica è una situazione maledettamente dura,
impressionante e difficile da valutare.
Quindi dire che la guerra è diventata la base della politica
significa anche trovare i fini della politica dentro la guerra;
significa cioè non semplicemente scandalizzarsi per questo ma, la
politica, quando raggiunge questo livello di distruzione è perché al
suo interno ha delle finalità strumentali assolutamente specifiche. E
dobbiamo quindi abituarci a lavorare, a studiare, a ragionare a questo
livello.
Dicevo, primo punto, che sentiamo oggi ripetere dai giornali, cioè
dalle dichiarazioni della Casa Bianca, da quelli che sono ormai i
nuovi attori che si stanno configurando in questo mondo, è questa
incombenza di una guerra iraniana. Tenete presente, anche questa è
una cosa che apre dei nuovi squilibri enormi. Parlare di guerra
iraniana significa attaccare il ventre molle asiatico che tocca i
grandi territori russi. Nel progetto di egemonia americano
evidentemente questo progetto sta vivendo nella scadenza che l’asse
del male, così definito, ha determinato. Dentro a questa scadenza
l’attacco a l’Iran comincia a rivenir fuori e i tentativi della
diplomazia europea, tanto onesti quanto ingenui, si stanno scontrando
con quella che è una riaffermazione pesante di questo progetto.
In terzo luogo continua il discorso sulla nord Corea. Anche quello è
un altro attacco specifico dentro la guerra, dentro la possibilità di
guerra che è immediatamente affermato in quanto la guerra è
preventiva, in quanto la guerra è una guerra di polizia che
interviene immediatamente, quindi dentro questo pericolo di guerra
c’è appunto la resa dei conti con la Cina.
Quindi siamo in una situazione di guerra che spaventa e in più in
questi giorni comincia a rinnovarsi da parte dei neoconservatori
vincenti la questione di rimettere a posto le cose in America Latina
dove troppi regimi anti-americani si sono affermati e comincia la
ripetizione continua di questo problema, e quando queste ripetizioni
cominciano c’è sempre qualcosa di peggio da aspettarsi.
E’ chiaro che una volta detto questo si tratta anche di vedere altri
aspetti che vanno in senso inverso.
E’ chiaro che, per quanto riguarda la politica americana oggi, essa
- nella sua prepotenza, nella sua arroganza - è minata da alcune
altre condizioni che sono altrettanto fondamentali, altrettanto
importanti.
Sono quegli elementi che riguardano la legittimazione effettiva della
guerra e questi elementi riguardano - semplicemente per elencarli
molto brevemente - la sempre più forte dipendenza della moneta
americana dai mercati finanziari mondiali. Quindi dal fatto che,
malgrado tutto, sul piano finanziario, monetario, quella che è la
grande cooperazione capitalistica, la costruzione sempre più intensa
del capitale collettivo, va avanti sul livello mondiale; le rigidità 
sempre più evidenti delle relazioni internazionali, non semplicemente
dell’America contro la Francia e la Germania, ma in generale contro
i blocchi continentali che si sono costituiti in questo periodo. In
terzo luogo, questa va sempre valutata e spero che Naomi Klein o
qualcun altro ce ne parli, la crisi interna della politica americana,
la crisi culturale che, nel vuoto di una sinistra, comincia a
determinarsi.
Quindi tutto ciò che cosa ci dà come quadro? Ci dà la
riaffermazione che la guerra è diventata l’involucro della
politica, che lo stato d’eccezione è diventato effettivamente
permanente da questo punto di vista. Ma ci dà anche il quadro di una
certa precarietà , di una certa difficoltà nello sviluppo di queste
politiche.
Io terrei molto presenti queste difficoltà perché è solo tenendole
presenti - e se non ipotizziamo come assoluto il pericolo di guerra -
noi abbiamo la possibilità di aprire un’iniziativa politica.
Di fronte al pericolo di guerra assoluto, di fronte allo stato
d’eccezione assoluto, l’unica risposta è il terrorismo,
parliamoci chiaro! E’ l’estremismo spinto all’estremo! Altre
volte ci siamo trovati in questa situazione e abbiamo sbagliato.
Noi dobbiamo tenere sempre, in maniera assolutamente precisa,
presenti, le contraddizioni, gli spazi, le precarietà che si
determinano su questo terreno. Perché solo se teniamo presenti queste
abbiamo la possibilità di iniziativa politica e ogni volta che
abbiamo iniziativa politica, diciamo come moltitudine, ma diciamo
anche semplicemente come movimenti concretamente esistenti, noi
abbiamo anche la possibilità di aprire di volta in volta nuovi
fronti, nuove iniziative e nuova speranza soprattutto.
Quello che noi non possiamo in nessun caso assumere è una mancanza di
speranza di fronte a un’onnipotenza della guerra. Se è vero che la
guerra è diventata involucro del politico, non è vero che questo
possa creare disperazione! C’è una rottura, c’è una possibilitÃ
, c’è uno spazio, dentro il quale dobbiamo saperci muovere.
Tanto più che, io credo, l’assetto imperiale non è assolutamente
concluso. E’ un processo che va avanti, è un processo dentro il
quale si determinano fasi diverse.
Queste fasi diverse vedono soprattutto parti delle aristocrazie
imperiali, come le abbiamo chiamate a suo tempo, cioè stati nazione e
gruppi continentali che stanno giocando fino in fondo un rapporto che,
se non è di forza su livelli decisivi, è comunque di contrattazione
pesante con questa iniziativa arrogante americana, con il suo
tentativo egemonico. Evidentemente sia sul piano della moneta che sul
piano militare che su quello culturale ci sono alternative che vengono
di volta in volta proposte.
Quando noi diciamo ad esempio che dall’America Latina o
dall’Europa o dalla Cina possono nascere elementi di blocco
dell’istanza imperiale americana, non stiamo dicendo che alla fine
americani, latini, europei o cinesi non finiranno per mettersi
d’accordo, perché gli interessi del capitale collettivo sono quelli
alla fin fine di riprodurre il sistema. Ma non sottovalutiamo questi
passaggi. Questi passaggi sono passaggi dentro i quali esistono
possibilità di intervento, spazi di intervento. Io non credo che in
questo periodo, in particolare, si possa arrivare a una definizione
imperiale che si dia come stabile assetto - guardate i casini che
stanno succedendo attorno, per esempio, alla riorganizzazione delle
Nazioni Unite.
Evidentemente sono casini che si portano dietro degli enormi problemi
di distribuzione di potere tra le élites dominanti. Guardate i casini
che succedono intorno alle bilance dei pagamenti o monetarie americane
e al gioco continuo tra la moneta che noi ci portiamo in tasca e il
dollaro. Anche qui ci sono in gioco dei problemi enormi che lasciano
spazi di azione. E questa situazione durerà per un lungo periodo e
sarà con tutta probabilità la situazione che noi ci troveremo di
fronte; è quasi una situazione ciclica, insomma, con aperture e
chiusure di spazi, di affermazione della guerra e dall’altra parte
anche di resistenze anche sul piano della grande politica,
geopolitico.
È proprio l’andamento ciclico di questa vicenda che lascerà degli
spazi anche ai movimenti.
Ed è appunto da questo punto di vista che io vorrei un momento
tipizzare - se questa è la situazione - alcune cose che derivano
appunto da questa descrizione che sto facendo e che possono
determinare dei contraccolpi negativi e positivi, per quanto riguarda
la vita dei movimenti. Dentro questo processo ciclico, dunque, di fasi
che sono fasi di guerra e quindi fasi inevitabilmente repressive e
d’altra parte fasi di contrattazione che possono in qualche maniera
determinare momenti di apertura. Ecco, per quanto riguarda le prime e
cioè per le fasi di guerra spinta, di propaganda ferma, noi ci
troviamo di fronte evidentemente a degli effetti che hanno sui
movimenti, come sulle situazioni interne in generale, che sono degli
elementi che possiamo facilmente descrivere. Quando la guerra diventa
l’unico elemento, appunto, nella configurazione del politico è
chiaro che l’identificazione e l’ingigantimento del nemico interno
diventa un elemento assolutamente fondamentale della politica.
All’ingigantimento del nemico esterno corrisponde sempre un nemico
interno, un nemico da battere.
Sappiamo quello che è avvenuto negli Stati Uniti negli ultimi anni
attorno a quelle che sono state le leggi che hanno appunto indebolito
la democrazia americana, per lo meno quella democrazia formale alla
quale gli americani erano comunque bene abituati.
E allora la domanda diventa, da questo punto di vista, assumendo di
questi due elementi il momento forte di aggressione e dall’altra
parte il momento di riflessione e di contrattazione, trattenendoci per
ora semplicemente sul primo momento: come si risponde a questa
incentivazione dell’elemento di guerra e quindi all’incentivazione
da parte del potere di quelli che sono gli elementi di repressione
interna, di identificazione del nemico, del suo isolamento o al limite
del suo annullamento?
Io credo che su questo terreno si tratta di battersi per la pace e la
democrazia, decisamente, senza dubbi e senza preoccupazioni. Pace e
democrazia sono delle parole veramente vecchie, noi sappiamo
perfettamente quanto pace e democrazia siano state mistificate,
utilizzate contro la classe operaia, il movimento operaio, i movimenti
in generale sovversivi e i movimenti sociali di liberazione.
Eppure io credo anche che oggi queste parole possano essere riprese in
maniera nuova, come nuove parole d’ordine e in fondo sulla loro
vetustà , sulla loro antichità e sull’ambiguità che rivelano - la
pace regge la linea Varsavia e la democrazia è sempre quella dei
padroni, per dirle in maniera assolutamente precisa - su questi
elementi vale la pena forse di mettere un velo per il momento.
Mentre invece vale la pena di chiarire i caratteri nuovi che
rappresenta una lotta per la pace e per la democrazia oggi, perché
lotta per la pace e lotta per la democrazia significa oggi solo
resistenza.
Resistenza cioè a quella che è l’aggressione e si tratta di una
vera e propria aggressione che a partire dal livello della guerra
viene portata contro il nemico interno e il nemico interno è colui
che contesta l’ordine sociale, politico, economico, esistente.
In realtà è molto difficile riuscire ad articolare questo discorso
se non lo si tiene su un insieme di passioni, prima di ragionarlo in
quanto elemento di razionalità politica.
A me capitava alcuni giorni fa, di fronte a qualcuno che mi chiedeva
se la resistenza irachena, se le lotte irachene - potevo chiamarle
l’insorgenza irachena o, come mi dicono, potevo chiamarla resistenza
- a me è venuto da rispondere "Avete mai visto i quadri di Goya?...
Quelli dei fucilati di Madrid?" Certamente quelli erano dei sanfedisti
reazionari se venivano fucilati in quel momento e probabilmente Goya
stesso era dalla parte dei francesi, della rivoluzione e quindi anche
di Napoleone.
Però quelli lì che erano fucilati come Cristo, dentro questa
luminosità di un atto di resistenza, di indignazione contro il potere
e di resistenza contro il potere, sono qualcosa che rinnova la storia.
Io non so cosa ci sia dentro l’islamismo, io penso che dentro
l’islamismo ci siano anche tanti elementi della vecchia tradizione
del socialismo arabo, che ci siano tanti elementi di resistenza e via
di questo passo - ma di questo possiamo parlare altre volte - ma
quello che mi interessa è cogliere questo elemento di irriducibile di
umanità che ci sta li dentro e quindi questa resistenza che quanto
più è legata a un sistema di indignazione per la libertà tolta, di
resistenza per l’affermazione di nuovi valori di vita, di
cooperazione, di comunità , diventa importante…ecco che questa
resistenza va evidentemente sostenuta fino in fondo. Ma quando diciamo
resistenza noi, se l’abbiamo collegata a un terreno di pace e di
democrazia, non ne parliamo in termini tradizionali ma ne parliamo in
termini costituenti: la resistenza è una resistenza che
immediatamente deve rappresentare elementi costituenti.
Elementi costituenti legati a che cosa? Legati a quello che siamo,
alla nuova società che noi rappresentiamo, al nuovo mondo del lavoro
nel quale siamo inseriti e questa resistenza costituente deve dunque
immediatamente anche riuscire a rappresentarsi in termini
programmatici.
Facciamo una piccola parentesi. È chiaro che oggi il sistema dei
rapporti tra capitale e lavoro è un sistema completamente superato;
lo sappiamo, abbiamo parlato a lungo del problema della nascita del
lavoro intellettuale, cognitivo e via di questo passo ma in realtà 
noi siamo ancora e sempre dominati da questo incubo delle grandi
organizzazioni sindacali, partitiche, del movimento operaio.
Si tratta evidentemente di rompere questo schema: un livello
costituente oggi non può rappresentarsi, e un livello programmatico
quindi non può oggi rappresentarsi se non su un terreno
postsocialista. Tenete presente che quando affermiamo questa
caratterizzazione postsocialista, cioè questa immersione nella
produzione sociale, nella produzione comune che il lavoro oggi ha, noi
non possiamo che fare poi un salto ulteriore. Un salto ulteriore
significa intanto, prima di tutto, trovare quello spazio pubblico nel
quale sviluppare un programma postsocialista: affermarlo, studiarlo,
sviluppare un’inchiesta, dargli prime forme di organizzazione.
Queste credo siano le cose che il movimento già fa ma dobbiamo
insistere su questo, insistere su questo come continuità del
movimento nella fase di repressione.
Solo se noi riusciamo a consolidare nella fase di repressione questo
tipo di radicamento, è solo se riusciamo a fare questo che riusciamo
poi appunto nelle fasi di relativa apertura a cogliere l’occasione,
a cogliere l’evento, a cogliere la possibilità di andare al di là .
Cogliere l’evento, che cosa significa? Evidentemente prima dicevamo
ci sono queste aperture: da un lato c’è questa spinta repressiva,
dall’altra ci sono delle crisi interne che slabbrano, per così
dire, i livelli di controllo e di potere; non è vero che i livelli di
controllo e di potere siano delle macchine di cemento, sono sempre
macchine vitali e dentro a queste macchine c’è sempre chi comanda e
chi obbedisce, chi è capace di massacrarti e chi è capace di
resistere.
Ora è proprio dentro a questo momento postsocialista innervato dalla
produzione sociale che, dentro le fasi cicliche nelle quali ci
troviamo a vivere, è probabilmente possibile cogliere degli eventi e
delle possibilità .
Oggi la fase è difficile. Ma oggi si tratta di radicare
ulteriormente, allargare, creare spazi pubblici per il movimento, ma
si tratta anche di creare una capacità di far corrispondere
all’evento, all’eventualità , all’occasione, alla possibilità 
che si apre, una decisione che sia capace di rappresentare i
movimenti. In che cosa può consistere quest’occasione? Io non lo so
bene. Sempre di più siamo andati avanti nella critica del potere,
nella critica del biopotere e quanto più siamo andati avanti
nell’analisi di quest’esperienza dei nuovi soggetti sociali, del
nuovo lavoro - delle moltitudini permettetemi â€" ecco, tanto più io
penso che nessuno di noi parla più di presa del potere né di
esercizio del potere, ma io credo che possiamo incominciare a parlare
e a liberare la nostra immaginazione costituente attorno veramente a
una proposta di esercizio del comune. Che cosa significa oggi?
Guardate, anche parlare di riappropriazioni è vecchio, qui non è che
ci riappropriamo di cose degli altri, qui ci riappropriamo
direttamente di cose nostre, ci riappropriamo del comune.
Quando andiamo dentro, eventualmente chi ha voglia di andarci va
dentro ad un supermercato non è che si riappropria di quelle
proprietà private specifiche, ma si riappropria, o meglio esercita
una capacità di ripresa dentro, in mano, di una parte di quel comune
che ha prodotto quelle merci. Questa esaltazione che la produzione ha
fatto del comune noi la ritroviamo in questa prospettiva, è possibile
cominciare a inventarci forme di gestione del comune, dico di gestione
o che giochino appunto questa possibilità e queste aperture del ciclo
politico. Io penso che dovremmo cominciare a pensare ad un esercizio
del comune come chiave, come dispositivo di nuove forme costituenti;
ma un esercizio del comune che non ha più niente a che fare con
l’autogestione ottocentesca, ecco, ma che deve avere a che fare con
quelle che sono le grandi forze collettive della produzione attuale.
Grazie. 

  scarica l’audio dell’intervento


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